Pro - gamers. Quando si rasenta la follia

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il bepi
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Pro - gamers. Quando si rasenta la follia

Post by il bepi » 11/11/2005 10:02

Ecco un articolo sulla stampa di Torino di oggi:
Intervista a Victor De Leon III, 7 anni, tutor videoludico

10 novembre 2005

Victor De Leon III, nome d'arte LiL Poison, è un pro-gamer. Un giocatore professionista, di quelli sponsorizzati da qualche azienda, che partecipano ai tornei internazionali e, a fine mese, se tutto gira per il meglio, portano a casa qualche centinaio, magari qualche migliaio di dollari in premi. Da qualche settimana, Victor De Leon III è anche un tutor videoludico per il sito Gaming Lessons. Una specie di docente di videogiochi, che impartisce lezioni di Halo online, naturalmente a pagamento, a singoli o a squadre di pro-gamer wannabe. Ma Victor De Leon III, prima di tutto, ha sette anni. Per chiedergli una breve intervista, come tutti coloro che vogliono comunicare con lui, siamo dovuti passare dal padre, anch'egli giocatore professionista, che si occupa dei rapporti con la stampa da quando il figlio è diventato famoso.
Mr. De Leon, com'è iniziata la vostra carriera di videogiocatori?
La mia carriera - spiega il padre di LiL Poison - è iniziata quando ho sentito parlare per la prima volta di tornei di videogiochi. Ho cominciato organizzando tornei e gestendo per qualche tempo il team Xtournaments. Abbiamo organizzato tornei di Halo in tutto il paese, fino a quando la carriera di LiL Poison non è decollata. Questo ci ha sottratto molto tempo, motivo per cui ho dovuto smettere di organizzare. Abbiamo iniziato entrambi con i tornei del primo Halo e ora proseguiamo con Halo 2, in attesa di un gioco più competitivo per console. Ma sono un videogiocatore da molto tempo, da quando uscì il primo Atari.

LiL Poison, quante ore al giorno ti alleni?
Mi alleno circa un'ora al giorno. Due partite free for all e due partite a squadre.

Come funziona una lezione di videogiochi?
Mio padre si occupa della maggior parte delle lezioni per aiutare i ragazzi a giocare meglio. Io aiuto facendo da esempio.

Che ne pensano i tuoi genitori della tua carriera?
Mio papà è il mio allenatore ed è lui che mi porta a tutti i tornei. Anche lui gioca. Anche mia mamma mi aiuta. Mi aiuta a fare i compiti prima di giocare.

Qual è la cosa migliore di essere un pro-gamer?
Conoscere un sacco di gente cool. È bello che la gente mi conosca, ed è bello anche vincere i tornei.

E la cosa peggiore?
I brutti commenti delle persone quando diventano matti perché vinco, o quando la gente urla "Ho appena ucciso LiL Poison, non è capace". Come se io dovessi rimanere vivo per tutta la partita.


Non so... io continuo a rimanere sbalordito come dei genitori possano portare un bimbo di 7 anni a fare di un videogioco un lavoro. Altro che conoscere gente! Questo bimbo conoscerà solo suoni, luci a flash del pc o al massimo qualche sigletta tipo GG, HF da scrivere sul monitor. GG

Bepi :bepi: & Banana :banana:

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Post by Maloghigno » 11/11/2005 11:12

Mi é venuta inevitabilmente in mente la pubblicità con la Carlucci : "mamma sono primo cittadino di Starville" e la mamma "fossi anche il primo a scuola"...

Si potrebbero sprecare fiumi di parole sulla filosofia del successo che spinge chiunque a sacrificare il proprio cervello (e qualcosa di più) per celebrità e soldi, allo stesso modo di veline e calciatori. Ci si potrebbe addentrare in discorsi sulla fatica di fare i genitori, per cui é più facile lobotomizzare i figli davanti a PC e TV piuttosto che sbattersi ad interessarli a qualcosa di vero, delegando di fatto la loro educazione e la loro crescita a scuola, internet e pubblicità ...per poi lamentarsi con la "società" quando vengono su male. O magari si potrebbe parlare di disagio, di casi estremi condizionati da sventure famigliari...

Di sicuro su fatti del genere é bene ragionare, ed é SANO rimanere esterefatti ed attoniti quando si presentano. La conclusione a cui si giunge non importa: colpa dei genitori, della pubblicità, della mancanza di valori, vita bruciata...

La cosa importante é non provare nè indifferenza nè rassegnazione... pensare "che ci vuoi fare il mondo va così"... é grave. Perchè se viviamo il gioco come un hobby, e quindi se viviamo la vita e non il gioco, prima o poi saremo tutti noi dei genitori, ed alcuni di noi già lo sono.
Senza giudicare, ma cerchiamo di rispondere alla domanda: noi cosa faremo fare ai nostri figli?
Non so... io continuo a rimanere sbalordito come dei genitori possano portare un bimbo di 7 anni a fare di un videogioco un lavoro. Altro che conoscere gente!
Io rispondo quotando il bepi: sono convinto che quella del videogioco sia una passione da poter coltivare in maniera sana dopo essersi sbucciati per bene le ginocchia con gli amici in cortile o al parco, dopo aver chiavato in una tenda in montagna o sulla spiaggia e dopo essersi fatti una bella compagnia di amici rompipalle che vengano a scampanellare se uno si perde davanti al PC.
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Post by FdD_Leviatano » 11/11/2005 14:05

Raga, io non sono d'accordo con voi. Innanzitutto io non credo che questo sia percepito dal bambino come un lavoro, bensi come un divertimento.

Inoltre prima o poi tutti noi dobbiamo lavorare, e mi vorreste dire che voi non preferireste farvi un torneo di videogame piuttosto che svegliarvi alle 6 di mattina, andare in ufficio, risolvere problemi e litigare con il capo ?

Questo ragazzo, se potesse continuare questa carriera, sarebbe veramente fortunato.

INOLTRE non è detto che una carriera del genere sia incompatibile alle amicizie, o agli amori. L'importante è fare tutto con il giusto equilibrio.

Per fare un esempio ci si potrebbe allenare un ora dopo pranzo e una dopo cena, ed ecco fatto che si riesce a fare tutto : sport, ragazze, amici ecc...


Di certo avere un figlio che passasse 10 ore al giorno davanti al pc e non avesse amici o ragazze farebbe incazzare anche me, ma se la cosa è fatta con il giusto equilibrio non ci trovo niente di male.

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snuffz
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Post by snuffz » 11/11/2005 15:10

e mi vorreste dire che voi non preferireste farvi un torneo di videogame piuttosto che svegliarvi alle 6 di mattina, andare in ufficio, risolvere problemi e litigare con il capo ?
Vabbè, questo esempio non ha molto senso, come chiedere:
preferireste fare i divi di Hollywood ed essere strapagati per girare film con Angelina Jolie, oppure fare gli operai in fonderia e spaccarvi la schiena per 800 euro al mese?
:dog:
Ad oggi le probabilità di pagarsi l'affitto smanettando davanti ad una Playstation, sono le stesse che recitare accanto a DeNiro in un film made in USA. Naturalmente non parlo di vincere una volta all'anno un torneo e portare a casa un impianto dolby 5+1, parlo di mantenersi, di pagarci le bollette di luce e gas.

E' questo che trovo pericoloso, il fatto che i ragazzi di oggi approccino ai videogiochi pensando un domani di poter trasformare Supermario in un lavoro. :dead:
Sui videogiochi la dipendenza è lampante (a me le ore che molti di voi passano su WoW fanno impressione), ma vogliamo anche parlare di "passatempi" come Magic o Yugihoo, in cui il gioco si mescola al collezionismo, creando bambini-proprietari di mazzi del valore di centinaia di euro?

Che differenza c'è fra giocare una partita a poker con gli amici il sabato sera, passare i pomeriggi davanti ad un videopoker elettronico in un bar, o andare al casinò e bruciarsi lo stipendio a un tavolo verde? La differenza non sta nella quantità di banconote perdute, ma nella percezione del gioco.

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Post by Maloghigno » 11/11/2005 16:12

Se ne parla tanto del professionismo sui videogiochi, ma non si tiene conto che (come dice Snuffz) la percentuale di quelli che riescono a mantenersi videogiocando é talmente infima da non essere neanche statisticamente rilevante. Sempre a livello statistico: se mettiamo a confronto le possibilità di vivere di videogiochi e quelle di diventare calciatori di serie A ... bhè, scopriamo che la serie A é dietro l'angolo, il progaming é su Nettuno. Perché lo dico con tanta certezza? Parlano i numeri: allo SMAU dell'anno scorso ho visto un solo "PRO" definibile tale, uno che probabilmente riuscirà a continuare a guadagnare dal videogioco: FATAL1TY. Il resto é solo gente che vince qualche torneino e porta a casa qualche soldino da spendere la sera, esattamente come il mio amico che giocava nella primavera del Toro: finita la pacchia ora studia e lavora tutto assieme perché ha perso un mare di tempo.

Piccolo OT su FATAL1TY: lui forse riuscirà a vivere di videogiochi tutta la vita NON perché sia così forte da vincere i tornei, ma perché FA SPETTACOLO, giocando bene e facendo divertire con QUALSIASI gioco gli venga messo davanti. Magari le prende dal campioncino di Halo, magari non sta dietro a Cafone su WarCraft, ma di sicuro ha capito che il business non é il torneino, ma lo SHOW.

Il pericolo dietro al sogno del pro-gaming é ben più grande di quello (altrettanto diseducativo) di diventare calciatori di serie A. Per entrambi si può parlare di responsabilità dei genitori, meccanismi pubblicitari, miraggi di celebrità, modo giusto di viverli, etc... ma non dobbiamo pensare a quell'unico "fortunato" che arriva in cima, bensì alla massa che si ferma molto prima. Rispetto al calciatore "fallito" il ragazzino che sognava il progaming ha uno svantaggio: é sicuramente più solo, non ha coltivato la capacità di stare con delle persone, perché ha parlato praticamente sempre e solo con un video. Ora mi ripeterai che giocare 5 ore al giorno non esclude il conoscere gente...
Per fare un esempio ci si potrebbe allenare un ora dopo pranzo e una dopo cena, ed ecco fatto che si riesce a fare tutto : sport, ragazze, amici ecc...
Leviatano credi davvero che possa bastare così poco? soprattutto credi davvero che chiunque passi 6 ore al giorno sul PC (dietro un MMORPG o dietro al sogno del professionismo) possa venire a dirtelo con leggerezza? figuriamoci dichiararlo in intervista...

E' molto difficile trovare "il giusto equilibrio" per persone di 40 anni, figuriamoci per un bambino di 7 ... Ma é difficile anche per noi, anche per me! Ho deciso di vendere WoW perché richiedeva troppo tempo: infognandomici e non avendo altri momenti spesso andavo a dormir tardissimo! Dipendenza ed alienazione esistono... e di soppiatto distolgono tempo ed energie preziose dai problemi dalla vita vera. Noi qui abbiamo conosciuto Legend, terzo in italia per un paio d'anni a WarCraft... non giocava un'oretta al giorno nei ritagli di tempo: nei ritagli di tempo studiava e mangiava... poi ha smesso di colpo perché ha dovuto trovarsi un lavoro e darci dentro con lo studio. Non so se hai avuto modo, ma io facendo l'admin allo smau ho guardato negli occhi questi ragazzi semi-pro venuti per i tornei a premi: degli alienati, tra loro quelli sani erano manco a dirlo i più scarsi. Non mi fraintendere, non é mia intenzione demonizzare nulla, ma nei videogiochi bisogna sapersi dosare, ed é una cosa che si impara col tempo.
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Post by FdD_Leviatano » 12/11/2005 20:05

Ragazzi, forse avevo capito male, io più che altro mi riferivo al fatto in sè che non c'era nulla di male nel guadagnare con i videogiochi.

Pienamente d'accordo con voi sul resto delle cose, come ad esempio che ci riesce uno su un milione, che non basta per pagarsi una vacanza alle haway, e forse neanche a fregene, e che i bambini di oggi stanno diventando dei super dipendenti.

Volevo solo dire che non necessariamente TUTTI i videogamer professionsiti siano degli sfigati. E anche se è molto molto improbabile, sarebbe bello riuscire a combaciare il lavoro con i videogames.

Pensate ad esempio a quelli che scrivono le recensioni dei giochi su riviste come PS2 magazine e via di li. Penso che il loro lavoro sia testare i giochi :elfo: cosi sarebbe una figata ( almeno penso che sia cosi, poi magari mi sbaglio )

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Post by Maloghigno » 02/12/2005 09:44

Non solo pro-gamers...

E' un articolo sullo scrittore Niccolò Ammaniti, e su come ha dovuto "costringersi" a smettere di giocare a World of Warcraft, perché non riusciva più a finire il libro che stava scrivendo.

Da Repubblica.it

Lo scrittore racconta la sua ossessione virtuale: "Ero nel tunnel"
"Il primo gioco che mi è piaciuto è stato Tomb Raider"
Ammaniti schiavo dei videogiochi
"Non scrivevo più libri"

di LOREDANA LIPPERINI

Niccolò Ammaniti
L'intervista che qui pubblichiamo va in onda oggi alle 15 sul canale satellitare Rai Doc.

Forse è un azzardo: ma sembra proprio che ci si stia accorgendo che i videogiochi raccontano storie, e che possono a loro volta suscitare ed influenzare altre narrazioni. Qualche esempio. Uno dei romanzi più attesi del 2006 è iPod di Douglas Coupland, che uscirà a maggio per Random House, dovrebbe costituire il seguito ideale di Microservi e ha per protagonisti sei programmatori di videogiochi. Pochi mesi fa è stato tradotto e pubblicato (da Meridiano Zero) Real Life di Christopher Brookmyre, dove un videogiocatore si trova a duellare nella vita reale con un vecchio amico divenuto terrorista. Sta per uscire il film da un libro appena arrivato in Italia, Master of Doom (edizioni Multiplayer. it) di David Kushner. In Italia si annoverano Alessandra C. con Skille, e di recente, Guglielmo Pispisa con Città perfetta.
Poi c'è un discorso più antico, che riguarda come la pratica del videogioco abbia influenzato il linguaggio di alcuni scrittori.

Per esempio, fin dai tempi degli esordi con Branchie, Niccolò Ammaniti: che peraltro è anche l'unico scrittore italiano ad aver seguito le orme di Clive Barker e Neil Gaiman e ad aver sceneggiato quel che doveva essere un videogioco (poi è diventato un corto digitale, con zombie), Gone Bad. Facile: perché Ammaniti è soprattutto un giocatore.

Il primo videogioco?
"Il vecchio Pong, quello che si giocava ancora sullo schermo della televisione ed era semplicissimo, dovevi soltanto colpire due sbarre con la pallina. Infatti non mi colpì molto, come tutti i giochi esclusivamente tecnici. Tutto è cambiato con la Playstation: quando ho visto che esisteva la possibilità di una narrazione ho cominciato a guardare i videogiochi con altro occhio. Forse il primo che mi sia veramente piaciuto è stato il classico Tomb Rider".

Che tipo di narrazione? O meglio: quali differenze narrative esistono nel mondo del videogame?
"Esiste ancora una grande differenziazione fra videogiochi narrativi e videogiochi fondamentalmente tecnici: quelli, cioè, dove devi ammazzare il maggior numero di nemici possibile, superare prove, arrivare in fondo e in assoluto percorrere una strada maestra dalla quale non puoi uscire per curiosare. Da qualche anno a questa parte, invece, esistono giochi dove puoi fare cose che non servono: dove può intervenire anche la noia, dove si può visitare il mondo senza le necessità di acquisire punteggio. Ricordo un gioco dove dovevi trovare un killer che aveva ucciso una bambina: e per farlo dovevi fare domande a personaggi che potevi incontrare, forse, entrando nelle case o camminando. La cosa interessante è che se aspettavi un autobus passavano davvero cinque minuti, reali, prima del suo arrivo. O che potevi anche giocare con le macchinette, o addirittura con altri videogiochi dentro una sala posizionata dentro il gioco. Nulla di tutto questo serviva, ma era ugualmente importante. Il punto di forza, cioè, non era tanto nella struttura narrativa, ma nelle ambientazioni. In giochi come Resident Evil la storia non è così significativa: l'interesse viene dall'atmosfera di paura, dalle situazioni, dai luoghi. Anche nei libri l'ambientazione, la costruzione del panorama sono, secondo me, alla base della storia".

Nella narrativa si infrangono spesso, e fortunatamente, le regole: accade anche nei videogiochi? E quanti si propongono come innovativi da questo punto di vista?
"È difficile fare un consuntivo: in un anno i libri che ti sono piaciuti si possono contare su una mano, la stessa cosa vale per i film, molto più per i videogiochi.
Non puoi provarli tutti perché costano molto e spesso la dinamica è la stessa: entra nel castello, trova il dirupo, ammazza il cattivo, vai in fondo al livello. Nel videogioco tradizionale pochi hanno cambiato veramente le regole. Qualcosa di interessante c'era in Grand Theft Auto, dove devi rubare automobili per crescere nel mondo della malavita: non solo ci sono sollecitazioni enormi (devi imparare a memoria-come nella tua città - le strade dove puoi andare, per esempio), ma, man mano che continui a fare esperienza, il mondo si allarga e diminuiscono le aree grigie dove non puoi entrare. Con quel gioco mi è capitata una cosa fantastica: non riuscivo a finire una prova, e dunque non riuscivo a sbloccare la metà di un mondo che era divisa da un fiume. Con la macchina non potevo passare, perché era tutto sbarrato, e mi son detto: ci vado a nuoto. Ho abbandonato la macchina e mi sono buttato in questo canale gigantesco: ci ho messo venti minuti ad arrivare dall'altra parte nuotando. Infine, sono entrato in una zona proibita. Ora, nei videogiochi tradizionali in questi casi non passi proprio: improvvisamente c'è un muro trasparente, o qualcosa che ti impedisce di proseguire. In quel caso sono potuto passare. Ma subito ho avuto addosso non solo tutta la polizia del mondo che mi ha accerchiato, ma addirittura personaggi "normali", quelli che abitualmente in questo gioco ti aiutano, cioè gli altri malavitosi con cui esiste un rapporto, un codice di alleanza. Qui no: qui avevo rotto il codice. Allora ho ripreso la macchina e sono entrato in una zona dove abitualmente "ti ripulisci", cambi il colore dell'automobile ed esci senza essere più ricercato. Bene: quelli che dovevano aiutarmi mi hanno detto: no, sei troppo pericoloso. Ero fuori dal sistema".

Esiste un punto di svolta dei videogiochi, una rivoluzione linguistica?
"Sì. Il gioco on line, dove posso interagire con altri personaggi che incontro, e dunque con altri giocatori come me, che siedono contemporaneamente davanti ad un computer, magari dall'altra parte del pianeta.. Il passaggio fondamentale è stato con World of WarCraft, dove entri in un mondo da cui è difficile uscire. Perché c'è un aspetto ludico fondamentale: il tuo personaggio deve crescere, deve diventare importante, dunque devi entrare all'interno di una gilda dove ci sono altri da cui ricevi piccoli aiuti, e cresci, impari, combatti, fai le quest, che sono compiti cui devi assolvere per guadagnare soldi ed esperienza. E soprattutto ci sono persone come te che giocano: così nascono grandi amicizie, andate insieme a scoprire mondi praticamente infiniti che attraversi con tempi lunghissimi, per andare da una parte all'altra puoi impiegarci quindici minuti. Io non riesco a trattarlo come un gioco: sai che devi stare attento a quello che dici perché l'altro si può offendere, cominciano a piacerti i personaggi. Per esempio, mi piaceva tantissimo un'elfa bellissima: ma non ho mai capito se fosse in realtà davvero una donna, e non avevo il coraggio di chiederglielo. Giocare on line non è come le chat, dove entri e parli di te. Qui hai da fare, ed è difficile staccarsi".

Poi cosa è successo?
"Ho dovuto giurare che finché non finivo il libro smettevo: avevo capito che stavo diventando veramente dipendente, al punto che mi svegliavo la mattina e pensavo nei termini dell'altro mondo, era come se sloggiassi dal gioco per poter vivere qualche ora nella vita normale per poi tornare al mondo reale, quello del videogioco... A un certo punto anche nei sogni mi sognavo vedendomi di schiena, come sul monitor. Come se il gioco stesso fosse un programma che ti riempie tutto l'hard disk e ti lascia uno spazio microscopico per poter vivere. Un po' inquietante: specie se mi fosse successo in quel periodo della mia vita in cui ho sentito la necessità di scrivere per raccontare storie che avvenivano in un altro mondo e non mi appartenevano. Scrivendo, era come se aprissi la porta e in un certo senso facessi un videogioco: ma era un romanzo. Se avessi cominciato prima con World of WarCraft, probabilmente non avrei fatto lo scrittore, mi sarebbe stato sufficiente giocare per potermi creare un mondo diverso da quello in cui vivevo".

E qualcosa di simile al gioco collettivo non potrebbe ripetersi in letteratura: non si sta, anzi, ripetendo?
"In parte sì. Ho anche partecipato ad un libro, una global novel, Il mio è nome nessuno, dove ci siamo dati la staffetta in diversi. È stato divertente. Ma c'è una differenza: nel videogioco tutti credono in quel che stanno facendo, si entra in un mondo costruito da altri ma con degli obiettivi condivisi. Che è difficile ottenere in letteratura, dove ognuno, infine, fa la propria strada rinunciando a costruire insieme un universo fantastico. Magari, anche giustamente".

(23 novembre 2005)
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