Detto questo mi piacerebbe affrontare con voi il discorso sulla rovina del calcio.
L'impegno che chiedo a ciascuno di voi che vorrà partecipare a questa discussione é di portare nuovi elementi, nuove informazioni (con tanto di fonte) e solo sulla base di queste (o delle informazioni portate da altri) esercitare il proprio diritto al libero pensiero e arbitrio.
E' un atteggiamento che bisognerebbe avere su qualsiasi argomento, ma che nel parlare di calcio é difficile da perseguire prorprio perché in Italia siamo tutti allenatori ed il tifo annebbia la mente intrufolandosi anche dove non dovrebbe.
Ecco quindi un articolo che ho trovato su Repubblica.it stamattina, mi ha colpito perché non é la solita filippica di un "OPINIONISTA" (ognuno di noi é opinionista cazzo) ma il risultato di un'inchiesta seria e obiettiva (credo e spero). E di sicuro tifo o fantapolitiche ipotesi di complotto non vengono neanche presi in considerazione.
http://www.repubblica.it/2004/d/sezioni ... ccati.html
Repubblica.it wrote:Analizzati i conti dei cinque maggiori club da una società
indipendente di auditing: per 4 il patrimonio è in profondo rosso
Il calcio delle cifre fasulle
ecco i trucchi delle società
Giocatori, vivai e cessioni: nascosti 1,3 miliardi di debiti
di CARLO BONINI e GIUSEPPE D'AVANZO
Perbacco, ci siamo tutti sbagliati con i guai del calcio. Il sistema economico dello "spettacolo più bello del mondo" non è in crisi. Ci deve essere stata un'illusoria rifrazione mediatica da qualche parte. S'era detto che "il sistema" fosse prossimo alla morte violenta. Era questa la ragione che ha spinto presidenti di società di calcio (a cominciare da Silvio Berlusconi, che è anche capo del governo), Federcalcio, leader politici, opinion maker a chiedere un urgente decreto dell'esecutivo che sospendesse, per dir così, l'immediato pagamento delle imposte per quelle società. Non c'erano i soldi per pagarle e le imposte non versate avrebbero interdetto l'iscrizione delle squadre italiane ai ricchi tornei europei.
Con un effetto catastrofico sui cospicui incassi garantiti dal palcoscenico continentale. Il pallone sarebbe stato schiacciato dall'illiquidità e dall'insolvenza. Il crack sarebbe stato definitivo.
Poi, il governo ha rifiutato ogni aiuto per evitare un collasso politico (Lega e Udc contrarie, An interdetta) e, come d'incanto, la scoperta: avevamo capito male perché poi la notte, intorno al pallone, non è così nera. Non è "il sistema" a fare acqua, ci dicono ora, ma alcune società del sistema. La Roma, la Lazio, il Parma sono state semplicemente amministrate senza alcuna diligenza e infatti i popolari patron di Parma e Lazio, Calisto Tanzi e Sergio Cragnotti, sono in prigione e il terzo, Franco Sensi, è stato costretto a impegnare al Banco dei Pegni (Capitalia di Geronzi e Arpe) i tesori del patrimonio familiare per tenere in piedi la Roma. E' tutto qui, l'affare. Due avventurieri e un malaccorto. Perché parlare di un calcio in crisi? Lo spettacolo può continuare. Come sempre.
Repubblica ha voluto vedere se davvero lo spettacolo ha forza e risorse per continuare. Se davvero la crisi non è di sistema, ma circoscritta a poche squadre guidate con avventatezza. Ha voluto prendere in parola Franco Carraro e ha chiesto a Practice Audit, società di revisione iscritta al Registro dei revisori contabili presso il ministero di Giustizia, di analizzare i bilanci delle maggiori cinque società del campionato (Milan, Inter, Roma, Lazio, Juventus) applicando le normali regole che il codice civile prevede per le società per azioni.
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I criteri di valutazione, i principi contabili e di redazione di un bilancio utilizzati dalle società di calcio divergono in un paio di essenziali elementi dai principi accettati per le società industriali e commerciali.
Vediamone, i principali.
1) Le "immobilizzazioni immateriali", innanzitutto. E' una posta attiva dello stato patrimoniale. Sono i beni di una società che non si toccano. In una società commerciale può essere il valore di un marchio. In una società di calcio, sono i giocatori. Il loro valore, il loro costo.
2) Le società di calcio iscrivono all'attivo in bilancio "i diritti pluriennali alla prestazioni sportive dei calciatori". Non c'è una voce omologa per le società industriali e commerciali. "I diritti alla prestazione del calciatore" ovviamente si svalutano. Le società di calcio possono diluire il costo della svalutazione nei bilanci di dieci anni. E' il "decreto salvacalcio" che non ha nessuna omologa norma nelle società industriali.
3) Le società di calcio possono capitalizzare i costi sostenuti per il settore giovanile indipendentemente dalla verifica dell'esistenza di un'utilità futura. Nessuna norma è assimilabile a questa nel "mondo reale".
4) Se si affronta il conto economico, non ha confronto con i principi adottati dalle società industriali la voce di bilancio delle plus/minusvalenze realizzate dalla cessione dei diritti alle prestazioni dei calciatori.
Ora la simulazione che proponiamo è questa. Consideriamo le cinque squadre maggiori del "sistema del calcio" (Milan, Juve, Roma, Lazio, Inter). Ipotizziamo che questo sistema sia privo della sua diversità, rispettoso della "normale" griglia di regole che governa le società per azioni e debba fare i conti con le perdite quando si producono. Facciamo le correzioni e vediamo che cosa salta fuori dal mondo del pallone.
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Milan. L'A. C. Milan spa del Presidente del Consiglio appare macchina di straordinaria efficienza. Sportiva e societaria. Così suggeriscono le fortune personali del suo presidente Silvio Berlusconi. Così indica il patrimonio netto della società che, al 30 giugno 2003, registra 78 milioni 38 mila 836 euro. 78 milioni di euro sono molti. Vediamo ora cosa ne resta rettificandoli alla luce del rapporto della "Practice Audit". Il Milan si "libera" nell'esercizio 2003 di una consistente voce nella colonna delle perdite attraverso una doppia operazione: la svalutazione del valore della propria "rosa" calciatori, quindi la distribuzione del suo ammortamento nell'arco dei successivi dieci anni. Glielo consente la legge "salva calcio". L'artificio provoca un effetto rigenerante sulle casse e i conti del club.
Svalutando la sua rosa calciatori per un valore di 242 milioni di euro, che sono e restano una perdita patrimoniale secca, e distribuendola nel tempo, il Milan ottiene infatti un beneficio lordo sul suo risultato di esercizio e sul suo patrimonio netto di 54 milioni e 305 mila euro, e conti rossi diventano neri. Non solo. Nel 2003, per la prima volta, Adriano Galliani decide di capitalizzare, come già fanno la maggior parte dei club, i costi del "vivaio". Si tratta di sottrarre le voci che attengono al settore giovanile al normale conto economico del club per iscriverle all'attivo patrimoniale. Per dirla in altro modo, dalla voce costi quegli importi finiscono tra le voci dell'attivo. Il che significa attribuire al valore di una giovane "promessa" (che forse sarà mantenuta o forse no), come al lavoro di un addetto alle pulizie degli spogliatoi dei "pulcini" un impatto sui risultati del club identico a quello prodotto dalla prima squadra. E' un bel risparmio: 3 milioni 659 mila euro.
Quella sul "vivaio" è una scommessa sul futuro, come tale imponderabile. Ma nel futuro il Milan crede, come il suo Presidente. Anche quando decide di iscrivere tra gli attivi del bilancio 12 milioni e 808 mila euro di crediti verso il Fisco a titolo di "imposte anticipate". Annota il rapporto "Practice Audit": "L'ammontare delle imposte anticipate deve essere rivisto ogni anno, in quanto occorre verificare se continua a sussistere la ragionevole certezza di conseguire in futuro redditi imponibili fiscali e, quindi, la possibilità di recuperare l'intero importo dalle imposte anticipate". Domanda: e se quegli utili non si produrranno? "Occorre monitorare, perché nel caso di previsioni di perdite, questi 12 milioni e 808 mila euro dovrebbero essere stornati dall'attivo e portati a perdita nel conto economico".
Tiriamo allora una linea e leggiamo le conclusioni del rapporto: "Il patrimonio netto al 30 giugno 2003 del AC Milan, ricalcolato al netto dell'effetto prodotto dalla svalutazione dei giocatori e dalla capitalizzazione dei costi del vivaio ha un saldo negativo di 142 milioni 693 mila euro". I 78 milioni da cui siamo partiti sono dunque solo un numero. Non esistono. Al loro posto, è un buco di 142 milioni 693 mila euro.
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Inter. Se si resta sulla piazza milanese e ci si cambia di maglia, i numeri riservano altre sorprese. L'Internazionale football club spa di Massimo Moratti dichiara al 30 giugno 2003 un patrimonio netto di 82 milioni 827 mila euro. E' - come, con enfasi, annotano le cronache non più tardi del 4 marzo scorso - "il sesto club più ricco del mondo e, con un fatturato annuo di 162 milioni e 400 mila euro, ha recuperato, rispetto all'anno precedente, ben sei posizioni in classifica".
La classifica di cui si parla è stilata annualmente dai revisori di "Deloitte e tiene conto del solo fatturato dei club e non delle loro perdite. E' una scintillante vetrina cui analisti di mercato e stampa specializzata sembrano attribuire forte impatto, perché quei numeri segnalano lo stato di salute delle squadre. E' una classifica in cui trova posto non solo l'Inter, ma anche la Juventus (secondo club più "ricco" del mondo), il Milan (terzo), la Roma (undicesima), addirittura la Lazio (diciassettesima). Bene, cosa ne è del sesto club più ricco del mondo nel rapporto "Practice Audit"? "Anche questa società - annotano i revisori - è ricorsa al cosiddetto decreto salvacalcio". Ha dunque svalutato - come il Milan - il valore legato alle prestazioni dei suoi calciatori, abbattendolo di 319 milioni 394 mila euro e diviso questa perdita patrimoniale in dieci tranche, nei successivi dieci anni. Identiche sono allora le conclusioni. Una volta "rettificato", e dunque caricata sul suo conto economico 2003 la perdita provocata dalla svalutazione dei suoi assets principali (i giocatori), "il patrimonio netto dell'Inter passa da un attivo di 82 milioni 827 mila euro a un passivo di 175,9 milioni di euro".
Ancora una volta: sono salvi i numeri, non la sostanza. Il patrimonio netto dell'Inter è già stato azzerato e, al 30 giugno 2003, già caricato di perdite ulteriori per oltre 204 milioni di euro.
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Lazio. Dell'agonia della Società sportiva Lazio spa molto è stato detto. Il suo salvataggio è ormai in mano alla Provvidenza e, per stare soltanto all'esercizio di depurazione del bilancio 2003 dagli effetti del decreto salvacalcio fatto dai revisori di "Practice Audit", conviene annotare che il suo patrimonio netto, già al 30 giugno 2003, era di fatto più che azzerato. Un patrimonio netto già negativo per 49 milioni 627 mila euro lo diventa infatti per 241 milioni 246 mila euro.
Dunque? Dunque va segnalato come il rapporto "Practice Audit" dimostri che la Lazio, più che un solare esempio di dissennata gestione aziendale, è oggi in realtà la proiezione di dove porta l'acrobazia contabile, che è però metodo condiviso.
Qualche esempio. La Lazio condona con il Fisco le imposte dovute fino al 30 giugno 2001. Quindi, decide di non versare più un solo euro dell'Irap dovuta sulle plusvalenze della cessione dei giocatori per il 2002 e il 2003 e apre un contenzioso. Dovrebbe comunque accantonare nel Fondo rischi gli importi per le eventuali sanzioni che il Fisco esigerà in caso di verifica. Non lo fa. La mossa le consente di non aggravare il patrimonio netto ed il risultato di esercizio al 30 giugno 2003 di, rispettivamente, 3,4 e 1,2 milioni di euro. Ancora. Come il Milan, iscrive all'attivo dei bilanci precedenti il 2003 "crediti per imposte anticipate". E' una scommessa sugli utili del futuro, che la Lazio non ha (e ben potrebbe non avere). Per il bilancio 2003, questo significa una "imprevista" perdita di 19 milioni e 600 mila euro. Di più: sempre al 30 giugno 2003, la Lazio deve 70 milioni e 590 mila euro di Irpef. La società chiede che vengano rateizzate in dieci anni, "senza interessi e senza applicazione delle sanzioni, fatta salva la sanzione ridotta".
Si può obiettare: il destino della Lazio è quello di Sergio Cragnotti. Ma guardate allora cosa accade quando - estate 2003 - l'ex patron è ormai lontano e nessuno può più scommettere sulla sua Cirio. Scrivono i revisori di "Practice Audit": "La Lazio vantava al 30 giugno crediti verso società del gruppo Cirio per complessivi 33 milioni e 500 mila euro". Chiunque avrebbe dovuto svalutare quegli importi. La Lazio non lo fa, perché questo le consente di non iscrivere a bilancio una perdita che in tal caso sarebbe stata di almeno 8 milioni e 900 mila euro. "Gli amministratori della società - si legge nel rapporto - ritengono che il patrimonio immobiliare di "Cirio Immobiliare Spa" sia capiente per soddisfare il creditore SS Lazio. Che "Cirio Agricola" sia in grado di soddisfare il credito netto residuo. Che verso "Cirio Finanziaria spa" e "Cirio holding spa" i crediti di SS Lazio siano compensabili con i debiti". Questione, quest'ultima, da vedersi nel procedimento fallimentare. Dunque, tutt'altro che certa.
Solo esempi, di una società ancora quotata in borsa, con il silenzio benedicente della Consob.
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Roma. In borsa è anche la As Roma spa di Franco Sensi. Il suo flottante azionario (il 38,3% del pacchetto) è da un anno, ormai, un numero da giocare alla roulette. Un ottovolante buono per gli speculatori su cui salire tra una sospensione e l'altra per eccesso di ribasso o di rialzo. Per quattro mesi, dal 7 novembre 2003 al 31 marzo scorso, la società ha operato con un bilancio non certificato. Per ottenerlo sono stati necessari una ristrutturazione del debito e delle compartecipazioni dell'intera holding di Sensi, l'ingresso di Capitalia nella controllante di famiglia (Italpetroli), la sostanziale estromissione del patròn dalla governance del club, il sacrificio del suo patrimonio personale.
Lo si può raccontare come un "salvataggio"? Non solo. E' forse e innanzitutto un passaggio di trasparenza contabile. Perché, a ben vedere, nell'operazione di Capitalia è anche e soprattutto la conferma della severità dei numeri di bilancio non appena liberati dall'effetto dopante dello spalmadebiti, dalle poste sospese con il Fisco. E' un calcolo semplice. La Roma, al 30 giugno 2003, presenta a bilancio un patrimonio netto di 21 milioni 541 mila euro. Che, rettificato da "Practice Audit", e dunque caricato dalla perdita della svalutazione del parco giocatori (133 milioni e 650 mila euro), si azzera e si trasforma in patrimonio negativo di 98 milioni 774 mila euro. Non basta. As Roma spa, sempre al 30 giugno 2003, deve al Fisco 79 milioni 55 mila euro per mancati versamenti di Irap, Irpef, Ici, Iva.
Capitalia non può allora che fare quell'operazione di svelamento sui bilanci che, per una volta, obbliga all'esercizio di disciplina normalmente richiesto a qualsiasi imprenditore. La banca impone una ricapitalizzazione di 150 milioni di euro, l'immediata dismissione di beni immobili per 80 milioni, che Sensi deve garantire mettendo sul piatto 500 milioni di euro del suo patrimonio personale. I numeri, per una volta, tornano a raccontare la realtà.
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Juventus. Al capovolgimento dei patrimoni netti da attivi in negativi si sottrae nel rapporto "Practice Audit" la sola Juventus Football club spa. Unica società, tra le cinque esaminate, a poter dire oggi che il suo patrimonio attivo è effettivamente tale.
A Torino, il decreto spalmadebiti è stato visto non come un salvagente, ma una pietra al collo del naufrago. Messa di fronte alla scelta se svalutare o meno il parco giocatori, "la società - scrivono i revisori incaricati da Repubblica - ha dichiarato di non aver proceduto alla svalutazione dei diritti pluriennali alle prestazioni dei giocatori (?) ritenendo il normale processo di ammortamento, riferito alla durata del contratto con ogni singolo calciatore, ragionevolmente più prudenziale e compatibile con le previste future capacità reddituali".
"Più prudenziale". Ecco la chiave. La Juventus non infila la scorciatoia contabile della svalutazione sulla base di una considerazione di "ragionevolezza" manageriale. Il che può significare due cose. Che altrettanta "prudenza" non dimostrano gli altri club primari esaminati (e bisognerebbe allora chiedersi il perché non lo facciano) o che "imprudente" è stata proprio la Juventus.
Un fatto è certo: i 99 milioni 619 mila euro di patrimonio netto dichiarati dal club al 30 giugno 2003 non vengono divorati dalla svalutazione dei giocatori ma, se mai, sostenuti per un terzo da una voce estranea al "core business" della società.
Parliamo della nota vicenda dell'acquisto, vendita e successiva parziale partecipazione del complesso immobiliare Campi di Vinovo. Operazione capace di generare plusvalenze per 32 milioni e 500 mila euro e di cui non importa ora ripercorrere il dettaglio, ma semmai registrare l'annotazione di "Practice Audit": "L'intera operazione, che pure ha generato poste attive in bilancio, non ha generato un reale flusso di liquidità".
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Due dati per concludere. I beni "immateriali", dunque inesistenti, delle cinque squadre ammontano a 1 miliardo 230 mila euro e li troviamo oggi nella colonna degli attivi. I loro debiti, dovuti entro un anno, ammontano a 1 miliardo e 302 mila euro. Legittima dunque la domanda: fino a quando il calcio potrà infilare i suoi guai sotto al tappeto? Il rapporto "Practice Audit" indica che il banco è già saltato e solo una finzione contabile autorizzata per legge impedisce che i libri di almeno quattro dei cinque club primari del sistema finiscano in tribunale. E' una verità così semplice e così nota al sistema che di fronte al "no" del Parlamento a nuovi aiuti per legge, presidenti e società hanno battuto in silenziosa ritirata. Diciamola così: è stato il consueto tentativo di non fare l'unica cosa che secondo le regole della buona amministrazione e in un sistema trasparente di mercato è obbligo per l'articolo 2447 del codice civile. "Se, per la perdita di oltre un terzo del capitale, questo si riduce al di sotto del minimo stabilito dall'art. 2327 (centoventimila euro), gli amministratori devono senza indugio convocare l'assemblea per deliberare la riduzione del capitale e il contemporaneo aumento del medesimo a una cifra non inferiore al detto minimo, o la trasformazione della società". I presidenti hanno voglia di farlo? Possono farlo?
(13 aprile 2004)