Fonte: http://www.emilianosciarra.net/en/compo ... -giocatoreNella mia esperienza di giocatore, prima, e di autore di giochi, poi, ho notato che nel gioco si tende a inseguire gratificazioni diverse. Le motivazioni per cui ci siano approcci così differenti è argomento che esula dalle mie competenze ricadendo nell’ambito della psicologia comportamentale e, su scala più vasta, della sociologia e dell’antropologia. Pertanto mi limiterò a offrire quello ho notato secondo il punto di vista di chi crea i giochi, lasciando ad altri il compito di spiegare a monte le molle che spingono a certi comportamenti.
In generale, fra le varie classificazioni che si potrebbero fare dei giocatori, si possono riconoscere due grandi categorie: quelli che ricercano in un gioco la vittoria, e che quindi ne sono gratificati, e quelli che cercano più che altro la socializzazione, ritenendo un gioco poco appassionante se manca. Insomma, chi è interessato all’esito e chi al procedimento che porta a quell’esito. Chiameremo per intenderci i giocatori del primo tipo competitivi e quelli del secondo tipo sportivi (intesi in senso lato, non che si dedicano ad allenamenti e ritiri pre-partita).
I giocatori competitivi al 100% trovano gratificazione nel vincere, ma non è una vittoria fine a sé stessa perché è ovvio che, a parte i casi più estremi, a tutti fa piacere vincere. Il giocatore competitivo si diverte invece se la vittoria è appannaggio di un suo merito personale, della sua strategia, del suo buon senso, insomma delle sue abilità nel condurre la partita. E’ come se cercasse un’affermazione personale e una rivincita attraverso il gioco. In qualche caso questo può diventare lo sfogo di una serie di frustrazioni, ma non è questa la sede per approfondire anche perché, come detto, non è il mio campo di studio.
La fortuna quindi è sostanzialmente odiata dai competitivi che spesso arrivano a classificare assurdamente la presenza di aleatorietà nei giochi come “difetto”, come se un gioco fosse un esame in cui dimostrare chi vale di più. Questa è una distorsione a mio avviso presente in molti giocatori appassionati, specialmente in Italia purtroppo, che tendono a snobbare i giochi con una componente di fortuna. Questo invece, dal punto di vista del game design teorico, non è mai un difetto di per sé: lo diventa quando un gioco di fortuna puro è lungo da portare a termine. Un gioco infatti dovrebbe durare in proporzione a quanta fortuna è richiesta: per banalizzare, è inutile stare due ore a giocare se alla fine chi vince viene scelto praticamente a caso; al contrario, se il gioco è velocissimo le risorse richieste sono altrettanto poche e questo è perfettamente accettabile.
La socializzazione per il competitivo è qualcosa di assolutamente accessorio, e può mancare del tutto: talvolta peggiora il gioco perché fa entrare in ballo competenze che esulano dalla logica, dalla strategia, e rientrano nella capacità di relazioni interpersonali, che sono variabili difficilmente controllabili in maniera così stretta e non afferiscono, almeno in apparenza, all’intelligenza e alla bravura, anzi sono viste spesso come scorciatoie o artifici per avere la meglio sui più capaci.
Le partite con più giocatori sono malviste dai competitivi puri, perché l’esito di una partita dipende anche dal fatto che tutti giochino al meglio, e se qualcuno compie una mossa sbagliata che pregiudica la vittoria del competitivo (almeno a suo giudizio, e in genere ne sa parecchio) è quasi un affronto personale. Il gioco migliore è quello per 2 giocatori, dove se uno vince l’altro perde, in uno scontro all’ultimo sangue senza pietà. E’ molto difficile tenere tutto sotto controllo con più giocatori, i parametri sono tanti e imprevedibili come le persone, quindi è assai complicato trovare una strategia vincente a priori, cosa che è lo scopo primo del competitivo.
L’ambientazione del gioco non ha alcuna rilevanza per il giocatore competitivo: che il gioco sia sullo sbarco degli alieni piuttosto che sulla compravendita di libri poco importa. Anzi, se il gioco è astratto è ancora meglio così ci si può concentrare solo sulla strategia senza inutili orpelli.
Sono pessimi perdenti e spesso anche pessimi vincitori, dato che distorcono l’esito della partita portandolo sul piano dell’affermazione personale.
Da quanto detto, i giochi in cui trovano più gratificazioni i competitivi sono quindi quelli strategici, astratti, lunghi e complessi (se non nelle regole, almeno nello svolgimento), spesso per 2 giocatori. Esempi: Scacchi, Wargames, Giochi di carte collezionabili.
A fondo scala dei competitivi ci sono delle figure che sarebbe bene evitare di avere a un tavolo di gioco, o comunque da limitare e in qualche modo arginare per non rovinare il divertimento a tutti. I primi sono quelli che fanno il cosiddetto “metagioco”, mescolano cioè la vita reale con quella ludica, cosa che non dovrebbe mai accadere perché il gioco sarebbe un’isola (per dirla alla Eugen Fink), separata dalla vita reale, dove ci si immedesima in qualcun altro e dove per un breve periodo gli amici fraterni diventano nemici implacabili da sconfiggere ad ogni costo. Rientrano in questa categoria quelli che se la prendono a male e i veri e propri vendicativi, che vi negano il passaggio perché non gli avete creduto a una partita di Lupus in Tabula e li avete eliminati. Da questo punto di vista, in effetti, i giochi a eliminazione sono da evitare con giocatori del genere, perché il fatto di non poter più giocare è una condizione ancora peggiore dell’aver semplicemente perso.
Poi ci sono i bari, l’antitesi e la nemesi dei giocatori sportivi, che pur di vincere (spesso per motivi personali legati alla vita reale, quindi con un micidiale “metagioco”) arrivano a violare deliberatamente le regole che seguono tutti gli altri. Sono fuori scala perché in realtà non stanno neanche giocando con gli altri dato che seguono delle regole loro senza dirlo agli altri, contravvenendo a quasi tutte le definizioni di gioco esistenti.
Dal lato opposto della scala ci sono i giocatori sportivi. Questi sono esattamente il contrario dei competitivi: non che a loro piaccia perdere, anzi, ma non danno alcun valore o quasi a una sconfitta, trovando gratificazione invece nello svolgimento del gioco, nella socializzazione, nelle situazioni che si vengono a creare.
La fortuna — sempre negli ambiti di cui abbiamo detto — è ben accetta perché permette svolte impreviste nel gioco che aggiungono divertimento e risate, e che sono fumo negli occhi per i competitivi. Addirittura giochi di pura fortuna, cioè l’azzardo, sono tranquillamente accettati proprio perché non c’è nulla da dimostrare.
La socializzazione e il numero di giocatori tollerato è il massimo possibile, perché ci sarà più varietà nelle decisioni e negli avvenimenti, e più imprevedibilità, il che aggiunge suspence.
L’ambientazione del gioco ha il suo peso, specialmente se le meccaniche ne riflettono in qualche modo il funzionamento, dato che per i giocatori sportivi l’importante è l’esperienza immersiva nel mondo creato da gioco. Per questo rifuggono i giochi astratti che invece sono estremamente asciutti e portano immediatamente all’elaborazione di una strategia autoreferenziale.
Preferiscono i giochi semplici, con poche regole, che possono essere maneggiati con facilità e che permettono l’elaborazione di strategie immediate, in modo da concentrarsi su tutto il resto.
Alla fine, non avendo quel peso di dover dimostrare la loro superiorità al resto del mondo, non ne fanno un dramma se perdono e anzi durante la partita consigliano gli altri sulle mosse migliori, anche a loro discapito. Ovviamente in questo caso la partita non può mai essere un confronto su chi sia “il più bravo”, ma questo non è nell’interesse dello sportivo.
Non si creda che questo tipo di giocatori sia innocuo. A fondo scala troviamo anche qui delle figure nocive per una buona riuscita di un evento ludico. Primi fra tutti i disinteressati: sono perniciosi perché ascoltano poco e male le regole chiedendo continuamente quello che devono fare, sbagliano di continuo, non capiscono o non vogliono sviluppare neanche la più elementare delle strategie e in pratica giocano a caso, rovinando le partite a tutti gli altri (figuriamoci a un competitivo!).
Fuori scala invece ci sono gli pseudo-giocatori, quelli che iniziano a giocare e poi abbandonano con noncuranza, quelli che sanno benissimo che non potranno giocare ma prendono parte lo stesso, alla fine delegando la partita a un altro, e questo non per un imprevisto o un impegno, si badi bene, ma per disinteresse e per un valore quasi nullo dato all’atto del giocare, visto come una perdita di tempo più o meno sofisticata.
In mezzo a questi due estremi ci sono ovviamente tutti gli altri, dai giocatori incalliti che preferiscono i giochi di stampo tedesco, vicini ai competitivi puri, ai giocatori casuali che vogliono ridere di gusto durante le partite e prediligono i giochi della classe detta in gergo Beer’n’Pretzel se non i veri e propri party game che hanno regole spesso abbozzate e piene di falle, e che regolarmente innescano discussioni che mandano in bestia un qualunque amante del gioco serio, figuriamoci un competitivo.
Ovviamente questa che abbiamo presentato è solo una delle possibili distinzioni dei giocatori in base alle gratificazioni da loro cercate nei giochi. Ce ne sono ovviamente altre, spesso legate ai meccanismi intrinseci del gioco.
Si parla di giochi ma leggendo l'articolo e le considerazioni credo che il concetto possa essere facilmente esteso ai videogiochi (benchè il fattore fortuna sia più occasionale) a come vengono affrontati, chi rosika e chi se la ride, e chi gioca a cosa.
La scelta del videogioco è naturalmente legata al tipo di piacere che ricerca il giocatore.
Anche la suddivisione magic-iana fra giocatori Timmy, Johnny or Spike, riassume molti concetti e tipologie di giocatore
Timmy, Johnny or Spike?